Esplorazioni impossibili alla ricerca del vulcano a metà tra scienza e religione: monte Tarara.
Il lettore perdonerà la grossolana alterigia di questo titolo ma non penso si possa trovare
un’espressione parimenti efficace per riassumere la storia straordinaria di cui sto per narrare.
Vorrà altresì il lettore perdonare la sottoscritta che, atteso che non basta attingere al solo garbuglio dei propri pensieri,
è stata costretta a inventarsi sortite come queste, reinterpretando teatralmente nomi e luoghi e consegnando direttamente a voi, popolo sovrano,
le valutazioni su tale esplorazione. E comunque l’inizio di tutto quello che sto per dire è già tutto nelle premesse e c’era ancora prima che io ne sapessi.
Ripeto: tutto è solo una mera reinterpretazione di nomi e luoghi ma lasciando da parte questo per il momento, come pure le mappe su pergamena e gli amuleti che
fecero si che questa storia si compisse, trascriverò alcuni dei fatti più rilevanti come furono scritti e mi furono raccontati e
del resto darò solo una parafrasi per essere breve. Non sarò così paradossale né così dogmatica come chi vuole
provare l’esistenza della pietra filosofale o la pluralità dei mondi, ma tuttavia vi sottoporrò modestamente i passi
che almeno possano chiarire questo accadimento e mostrare che questi uomini e queste storie non sono così impossibili,
e che ogni epoca ha qualche segreto lasciato da scoprire come lo furono la stampa, l’arte di navigare,
il cavalcare a sella e i microscopi, che una volta suscitavano altrettanta meraviglia e che erano altrettanto difficili da far intendere.
Credo fosse settembre 9281, o un mese qualsiasi di quell’anno, o forse un qualsiasi giorno del 9281,
che una montagna dal doppio cono, un tal monte Tarara, mostrava la sua gigantesca ombra attraverso la foschia.
L’anno di un’impresa tanto straordinaria correva assieme alle impronte sulla neve di un grande scienziato e alpinista, un tal Chiredeirf Torrap.
Il monte di cui narro era sacro, autentico e simbolico, il nostro Torrap determinato, sicuro e chiuso nell’ostinazione di grandi avventure.
Aveva percorso in lungo e largo i più alti massicci del globo terracqueo; pare che a quei tempi la più alta vetta conosciuta fosse un tal monte Ozarobmihc,
presto voluto dimenticare per via del nome impronunciabile.
Uomo di così insolita irrequietezza Torrap aveva scalato un picco, vetta di venerabile altezza,
che ancora oggi, molti di voi certamente lo sapranno, porta il suo nome: picco Torrap.
La ragione di quella scalata si dice sia stata, oltre che una fatalità paziente e ostinata del nostro protagonista per la fisica e
la montagna, anche verificare se il cielo, a nobili altezze, potesse diventare tanto scuro da mostrare le stelle persino di giorno.
Inutile dirvi che se così fosse sarebbe bellissimo.
Sempre i fatti di mia conoscenza, frutto di fortuite ricerche e di altri innumerevoli modi immeritevoli di nota,
figurano Torrap medico-soldato in sconfinate e gelide steppe di un vastissimo impero, il più grande allora conosciuto. E parrebbe proprio
che Torrap sia nato in una delle regioni di quel regno, la quale, secondo i miei calcoli da dimesso cartografo, potremmo assimilare
grossomodo all’odierna Estonia; lì godeva dei favori di Alocin I, chi fosse Alocin I e cosa c’entra lui nella nostra
storia lo capirete forse qualche riga più giù; vi basti al momento sapere che era regnate indiscusso di quelle terre.
Lasciamo però per un momento il nostro Torrap a corte mentre cerca un giusto compromesso tra il libero pensiero e
la necessità di mezzi che gli consentano l’impresa e torniamo al monte Tarara. Ricordate? C’è anche “lui” nella nostra storia,
e un mineralogista, un astronomo, due guardie armate di Alocin I, il quale sorveglia da corte l’impresa, due studenti e pare,
unitisi più tardi, due pastori armeni. Ma di loro parleremo più avanti.
Monte Tarara era allora conosciuto sotto molti nomi,
se ne contano almeno quattro ancora oggi, pare la sua esistenza figurasse
persino in antiche scritture, ma per Taluni era semplicemente la montagna del dolore
tanti erano stati gli scontri e i genocidi consumatisi sulle sue pendici ghiacciate, Talaltri, considerandolo sacro,
ritenevano invece sacrilego scalarne la vetta. Si raccontava a quei tempi di un monaco del vicino monastero di Nizdaimhce
che ci avesse provato; si inerpicava su di giorno salvo poi, al mattino, ritrovarsi di nuovo ai piedi del monte, che si scoprì, tra le tante,
ben presto essere anche vulcano. La conclusione a cui giunsero presto tutti, monaci e abitanti dei villaggi vicini, fu: impossibile scalarne la vetta.
Il monte-vulcano doveva avere dentro di sé una sacralità irriducibile. Ora non è tanto importante per noi sapere chi per primo ha avviato questa serie di
riflessioni sulla sacralità del monte, che fosse monaco o pastore è poco rilevante ai fini della nostra storia, quanto capire da dove derivasse la sua fama di monte
“leggendario”.
La sua storia affonda radici in un tempo imprecisato, voi perdonerete di certo
la mia approssimazione temporale, centinaia o forse migliaia di anni prima del monaco di Nizdaimhce,
quando un uomo, illuminato dalla grazia di un dio, per paura di un violento nubifragio, approdò proprio lì con la sua ACRA, quella che oggi noi potremmo assimilare ad una grossa nave da crociera.
Cosa trasportasse l’ACRA non fu mai provato. I più ortodossi dicono ogni genere di animali e piante.
E ancora oggi, vi assicuro, molti uomini dei tempi in cui scrivo, si perdono senza fare ritorno sul Tarara alla ricerca di un pezzetto di quell’ACRA,
nella speranza di poter dimostrare l’esistenza del dio o più, semplicemente, di una nave capace di contenere tutto il conoscibile in natura.
Ma pare ora sia giunta finalmente l’ora per noi di abbandonare congetture e leggende per incamminarci assieme a Torrap e ai suoi compagni (li ricordate? Sono qualche riga più su) sul nostro monte sacro per Alcuni, abitato da Talaltri in una regione che però non apparteneva né ad Alcuni né a Talaltri.
E vorrei fare, al punto in cui siamo giunti e con quanti di voi sono arrivati fino a qui, un patto: di smettere lo sciocco artificio di risvoltare nomi e date per consegnarvi quanto di più incredibile la nostra storia possa contenere, l’essersi davvero compiuta.
Alcuni di voi, e io ne son certa, vista la premessa appena fatta, staranno ora già tenendo in gran conto persino la storia dell’uomo arenatosi con la sua ARCA sul nostro monte ma questa, credetemi, non è questione in cui addentrarci in queste poche ultime righe rimasteci. Vogliate pertanto credere, a vostra discrezione, della storia il tutto o una parte.
Fedelmente ai fatti di cui so aggiungo alla nostra spedizione anche un giovane diacono di nome Khachatur Abovian, studierà più tardi nella cara Venezia.
Fin dall’inizio destinato a diventare tra i grandi padri della letteratura armena moderna, fu lo zar Nicola I in persona,
avendo a cuore la buona riuscita dell’impresa e confidando nell’erudito Abovian, a volerlo nella spedizione come guida e interprete.
Ci vollero tre tentativi prima che Friederich Parrot potesse, assieme ai suoi compagni, alle 15:15 del 27 settembre del 1829
(che corrisponde al 9 ottobre secondo il calendario gregoriano) erigere una croce di legno sulla cima del monte Ararat (5137 m),
croce che più tardi si rivelerà troppo piccola per essere avvistata dal basso.
Si racconta che dei due pastori uno ebbe mal di montagna e che l’altro, temendo di incrociare Noè e la sua arca, non si sentì cuore di arrivare in vetta.
Mi pare sia giusto anche che voi sappiate che il successo di quest’ultimo tentativo molti credono sia legato a un’alimentazione a base di zuppa di cipolle e rhum, dopo i due precedenti falliti avendo in corpo mezzo montone e vino. Ho scorto notizie anche di un pane cotto contro pareti d’argilla, gli armeni ancora oggi lo chiamano lavash, talmente sottile che pare, durante la nostra spedizione, sia stato adoperato e come tovaglia e come cucchiaio. In riferimento alla questione che mi ha dato lumi sulle abitudini culinarie della spedizione lascerei perdere perché potrebbe dirottare altrove la mia penna, e preferisco giungere alla fine del nostro racconto.
Parrot morirà sei mesi dopo un tragico terremoto occorso nel 1841 che distruggerà la sua croce, la via da lui tracciata, il villaggio dei due pastori, e il monastero di Echmiadzin, quello stesso monastero in cui i monaci ebbero a screditare l’impresa del nostro protagonista.
Una pletora di scettici e bugiardi accolse Parrot al suo ritorno. Scalare l’Ararat era semplicemente impossibile. I pastori armeni giurarono, mano su una Bibbia, che Parrot non fosse mai arrivato in cima, le due guardie del corpo dello zar Nicola I, colti probabilmente dal poco intendimento legato al rhum bevuto, non seppero accordarsi sul giorno di arrivo in vetta. Del diacono e di tutti gli altri, sono onesta, a me non è giunta notizia. Parrot passerà tutta la vita a cercare di dimostrare di essere arrivato sulla cima dell’Ararat, e più volte nel corso degli anni a seguire ne tenterà nuovamente l’ascesa senza mai più riuscirvi.
Vogliate credere però voi lettori al nostro Parrot e trattenere sempre il respiro un attimo in più di quanto è lecito credere per continuare a cercare anche voi il vostro monte TARARA.
Io nei tempi in cui scrivo sono giustappunto atterrata a Salonicco alla ricerca del mio.