LOADING

OLTRE IL VALICO

racconti, montagna

Di templi sfarzosi e sbrecciati: le Pale di San Martino

Un’estrema pazienza e un’estrema attenzione mi avrebbero accompagnata attraverso quella regione di terre spezzate, di acque fagocitate dentro rocce inclinate al grande soffio dei venti regolari. Non che mi preoccupasse più di tanto, in fondo lo sapevo l’Altopiano delle Pale apparteneva a quella stessa realtà di cui conoscevo già bene la natura, la montagna, e nella cui anima mi sembrava di aver scrutato già molto negli ultimi dieci anni della mia esistenza. Non sentivo nessuna apprensione, mi era oramai familiare, anche se l’occhio della mia mente vedeva sulla carta tutte le potenziali complicazioni e difficoltà. Era in un certo senso abbastanza semplice però, si è donne di montagna o non lo si è e io non avevo dubbi di esserlo. È a quel mormorio di pensieri che lascio l’auto nel parcheggio antistante gli impianti di risalita Colverde-Rosetta. Nell’auto la bici e nelle gambe la stanchezza dell’Alpe Adria Radweg appena concluso. Sento di muovermi coi ceppi alle caviglie.
“E’ un altro viaggio!” Nient’altro. Non so cosa volessi dirmi esattamente in quel momento ma l’ansia di incamminarmi su per l’Altopiano mi fece inghiottire il mio pensiero, qualsiasi cosa fosse.

I rifugi delle Pale: l’affabile umanità degli incontri

Rifugio Pradidali, rifugio Velo della Madonna, il Canali “Treviso”, il Rosetta e infine il Mulaz. Di ognuno trascrivo i nomi dei gestori sul mio taccuino, provo a immaginarli nei giorni che precedono il mio arrivo in rifugio: Duilio, Elisa, Mara, Roberta, Sebastiano e Beatrice. Li ascolto parlare di “miracoli” quotidiani a cui è costretto un gestore per garantire ristorazione e pernottamenti. C’è chi lo fa da trent’anni e chi invece ne ha fatto una scommessa iniziata da pochi anni.
E poi ci sono altri incontri, di quelli fatti attorno a un tavolo per la cena in cui parli ore dimenticando persino di chieder nomi. Ci si scambia impressioni, aspettative, si parla di Palaronda, di Alte Vie, del prossimo rifugio e di quel sentiero appena percorso. O più semplicemente di se stessi. C’è chi mi guarda con l’apprensione di uno zio e vede nella mia confidenza ai viaggi in solitaria una specie di sdegnata incoscienza. Vorrei spiegare: sono solo perduta in astratte elucubrazioni, fantasticherie romantiche e in un esame molto pratico delle mie capacità.

26 agosto, Rifugio Rosetta


Dieci minuti dopo il mio arrivo fagocito strudel di mele, si avvicina una donna. Settant’anni? Poco meno forse. Mascherina sul volto.
«Disturbo?» Qualcuno si volta a guardare. Ci metto qualche secondo a realizzare che sta parlando proprio a me. «Sei sola? Sei sola. Ti ho vista arrivare sola». Colgo un bagliore nei suoi occhi e mi appare subito come certe persone rare, si sente che è bello stare in un mondo in cui ci sono loro. Racconto il Palaronda e i giorni precedenti trascorsi in Austria. Si commuove di ricordi davanti a quell’illusione di vita e di carattere che affascina ma che spesso ci lascia dietro anche un senso di incompiutezza e solitudine. Pochi minuti per una conversazione più intima di quanto le parole di una lingua possano esprimere. Un colpo al cuore. Di quelli che lo ricordate e anni dopo vi svegliate ancora per pensarci e sentite caldo e freddo in tutto il corpo. Ogni scena, ogni episodio di quegli incontri non è stato altro che uno spettacolo dell’esperienza umana emozionante che mi è toccata nei giorni di Palaronda.

Bene impagabile, assoluto valore, indispensabile ricchezza: criosfera e linee d’ombra

“Il ghiaccio è qualcosa di particolare. Il glacialismo è sicuramente un fenomeno affascinante. Laddove le nevi invernali si accumulano, masse ghiacciate resistono ai calori estivi e fluiscono come fiumi lenti e inarrestabili. Nel loro incedere trattengono memorie e testimonianze e allo stesso tempo lasciano segni inconfondibili nel presente […] I ghiacciai però sono anche delicati ed effimeri, animati da una mutevolezza che trova pochi paragoni nel mondo naturale e forse ci rammenta la fragilità della vita. Essi respirano, espandendosi e ritirandosi si adattano all’ambiente che li circonda. Questo loro dinamismo è sicuramente più vicino alla manifestazione di una creatura vivente che non a quella di un fenomeno climatico e geologico.”
Giovanni Baccolo – Piccoli ghiacciai alpini. Sulle tracce di Bruno Castiglioni tra le Pale di San Martino

25 agosto, Rifugio Canali “Treviso”

Nelle mie orecchie le parole di Mara Iagher: “Qui non può essere la domanda a determinare l’offerta!”. Mara gestisce il rifugio dal 2000 assieme a marito e figlio. L’acqua “la pescano” da una sorgente. Al Canali “Treviso” faccio una doccia, la prima e ultima dei miei giorni in Altopiano.
Acqua! Bene prezioso. Bene esauribile. Non sprecare l’acqua, rispetta l’ambiente! Ne ero consapevole. Forse no. Imparo a razionarla in maniera intelligente solo ora sulle Pale. Rimugino: cucinar con l’acqua, lavar stoviglie, lenzuola e poi bagni, docce in rifugio. I consumi medi pro-capite? Un pernotto sono forse quaranta litri, un escursionista con pranzo 15 litri di acqua? Ma da dove arriva l’acqua dei rifugi? Sorgente, ghiacciaio, pioggia, stillicidio. L’estate è torrida, e l’acqua scarseggia negli invasi. L’affluenza degli escursionisti ne eleva i consumi, la natura carsica dell’Altopiano ne accentua il problema.
Il clima cambia, l’approvvigionamento in quota non è facile, difficile è invece che a capirlo sia chi si aspetta che un rifugio sia simile a un ristorante o un albergo. In realtà neppure la mia di mente era fatta di stoffa tanto elastica da comprendere come velocemente l’aumento delle temperature ha avuto importanti ripercussioni sulla criosfera.
Sentiero 707: sono al cospetto del ghiacciaio quasi esanime della Fradusta, scende nel versante Nord della Cima la Fradusta (2939 m), il punto più elevato della serie di creste rocciose che formano il perimetro meridionale dell’Altopiano. Agli inizi del 1900 il ghiacciaio superava abbondantemente i 150 ettari oggi neppure 3. Tre! Ghiacciaio di ieri.

Tremenda fortissima quasi palpabile: la verità

“… così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo."
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari
Cammino. Mi precede una coppia di tedeschi. Continueremo ad incontrarci ancora, lo so. Ed eccoli! Di nuovo loro al rifugio Mulaz, l’ultimo giorno. Li osservo con un acuto risveglio di interesse e con un pizzico di stravagante vanità che ben si accorda con la sensazione onirica dei giorni appena trascorsi.
Tutto è imponente, vigile, silenzioso mentre io mi dilungo in chiacchiere con me stessa. Vedete qualcosa? Riuscite a immaginare? È come cercare di raccontarvi un sogno, e non riuscirci, perché non c’è resoconto di sogno che possa restituirne l’impressione, il caravanserraglio di sorpresa, meraviglia e la sensazione di essere prigionieri dell’incredibile. Inutile provare a raccontarvi tutti gli inverosimili dettagli di rocce; stanno lì che fumano le loro paffute palle di vapore mentre strie nere che paiono visioni di formiche giganti in processione ne percorrono la schiena, mi ingannano quando si mostrano morbide e levigate come fossero fatte tutte di pelle d’amare, e poi d’improvviso cambiano raggrinzite, rattrappite di freddo e si modificano in macerie, massicce e incallite di duro lavoro, stratificate come Storia, difficili come solo l’amare. È solitudine e silenzio intorno ma se le Pale avessero voce sarebbe un tremolio fievole e vasto che si attenua e si gonfia, un timbro suggestivo e selvaggio la cui impressione sarebbe altrettanto profonda del suono di campane in terra cristiana. Sbrigarsi? A far cosa? A risalire il sentiero?
“Così una pagina lentamente si volta, si distende dalla parte opposta, aggiungendosi alle altre già finite, per ora è solamente uno strato sottile, quelle che rimangono da leggere sono in confronto un mucchio inesauribile. Ma è pur sempre un’altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita.”
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari
Una consapevolezza diversa suscitata da questo viaggio è sembrata formarsi da sola al ritorno. La verità più riposta rimane nascosta è vero, fortunatamente, fortunatamente. Che importanza ha quello che uno non sa o ignora? Ma io l’ho sentita lo stesso osservare i miei trucchi. Stancante talvolta, credetemi, tener banco a sé stessi nella vastità dell’Altopiano.