ACTION IN THE MOUNTAINS: nove mesi d'inferno tra le Mainarde e il mare
20 dicembre 2020, ore 9.20: domenica prenatalizia.
Gli anziani al bar del piccolo paesello di San Vittore del Lazio sembrano non accorgersi del mio arrivo.
Ho un appuntamento. Sono in anticipo. Ne approfitto per guardarmi attorno:
la Basilica di Santa Maria della Rosa, i resti dell’antico castrum, il campanile
alla mia sinistra; sì, sono nel centro storico del paese.
4 novembre 2020, ore 21:00: sono alla ricerca di una storia.
Una storia in cui uomini e montagne si incontrino. Sento forte l’urgenza di raccontare
la mia terra. Scrivo un messaggio a Pino. Lo conosco, è l’uomo giusto. Ci siamo conosciuti
al corso guide. Lui insegue storie coperte dal panno farinoso del tempo. Gli butto lì
la mia idea. Ci pensa. Mi invia un numero e scrive: “Chiamalo! E’ il nipote di zi Mnguccj,
l’uomo che ha posato per Robert Capa nel gennaio del ‘44.” Passa un mese anche più. Aspetto il momento giusto; no, aspetto solo le parole per chiamare.
20 dicembre 2020, ore 9.30: suono
al cancello di ingresso del civico 56. So che ad aspettarmi c’è il prof. Luigi Matteo.
Non lo conosco, non mi conosce. Lo chiamo al telefono il giorno prima. Mi spiego, almeno ci provo,
gli dico che ho visto delle foto di Robert Capa in cui compare suo nonno. Diversi scatti. Foto bellissime. Umane. Reali. Con gentilezza disarmante risponde:
“Venga, venga domani che le racconto”. Mi dà un indirizzo.
Luigi mi riceve affabile e caloroso. Ha 76 anni. E’ nato esattamente sette mesi dopo i fatti di cui
narro. E’ nato alla Radicosa, un frego di quattro case tra le montagne, na’ fraziuncella ieri come oggi.
Tre chilometri più a sud si sconfina in Molise, a San Pietro Infine, proprio dove John Houston girò
le scene di Combat film. Un luogo come tanti da queste parti; paesi con l’unica colpa di essere stati strategici per l’arrivo degli alleati a Roma.
Prima di entrare in casa mi mostra gli affreschi con cui sta decorando il patio. Entriamo. Il camino acceso. In cucina la moglie traccheggia col pranzo,
l’odore di funghi m’invade le narici. Francesca mi riceve con un sorriso. Le sorrido di rimando cogli occhi.
Prepara una tisana al finocchio, mi serve zucchero da una zuccheriera in argento, gira, poi me lo offre. Ringrazio,
mi sposto a ridosso del caminetto. Il calore mi investe la schiena. Mi aggiusto la mascherina, faccio un passo indietro.
Respiro ancora quell’aria buona. Siedo. La cucina è piccola e accogliente, si apre su un giardino, attorno due torri quadrangolari del XI secolo.
Non ho fretta oggi. Mi basterà sentire Luigi parlare di nonno Domenico, zi Mnguccj, come a quei tempi lo chiamavano tutti. E’ lui in quegli
scatti di Robert Capa del 4 gennaio del ’44. Lui Domenico, che la sua casa tra le montagne non aveva voluto lasciarla, e Robert Capa, giovanissimo,
arrivato a raccontare la guerra assieme alle truppe di liberazione canadesi.
1° ottobre 1943: gli alleati entrano a Napoli. L’arretramento dei tedeschi comporta per ordine diretto di
Hitler uno sbarramento trasversale. Lo Stivale, dal Tirreno all’Adriatico, è attraversato da una serie di linee difensive:
linea del Volturno, linea Barbara e linea Gustav. La Radicosa, tra le montagne, è lontana da arterie e vie di comunicazione,
e poco si cura di sbarramenti e strategie militari. C’è chi la crede riparo e protezione dalla guerra, ma i tedeschi
preferiscono proprio i percorsi interni, poco accessibili ai mezzi corazzati alleati.
Fu guerra. Cannoneggiamenti,
“fortezze volanti”, monti invalicabili per la resistenza opposta dai tedeschi, freddo impensato nel paese del sole,
civili allo stremo con le mani macchiate di scabbia. Si scrive scabbia ma in realtà si legge rogna; un animaletto più
che microscopico che si infilava sotto la pelle e ci scavava dei tunnel, piccoli rilievi tortuosi e grigiastri fra le dita,
sotto le ascelle, tra i glutei fino ai genitali. Quando il sole declinava all’orizzonte si scatenava l’insopprimibile desiderio
di grattarsi a sangue un po’ dappertutto. Oltre alla rogna c’erano poi bombe alleate, mine tedesche, fame, grottacce tra i monti
dove per mesi si stava come larve, e poi ancora pidocchi, morti gratuite tra tratturi di polvere e sassi e altri fattacci e nefandezze varie.
Gli sfollati furono costretti ad attraversare scalzi le montagne affondando nella neve fino alle ginocchia, le gambe rosse per il freddo che
quasi non le sentivano più, labbra livide, qualcuno caricava sulle spalle i bambini stremati, qualcun altro cedeva le proprie scarpe alle donne
che col capo gravato da cesta avanzavano con “la casa n’gap’ […] e culla rabbia mbiétt” . Intrappolati senz'acqua, senza cibo, oppressi dal
martellare del fuoco di opposti schieramenti, stettero a difendere le bestie, la casa dagli sciacalli o solo per paura di essere trasferiti in Germania.
Molti si rifugiarono a gliu rutton (la grotta) sul monte Sambucaro, altri negli anfratti del centro storico del villaggio di Saint Victor
(così lo chiamavano i soldati americani).
Un vento squallido vagava sopra di loro.
L’aria danzava al ritmo delle potenti conflagrazioni, il fumo avanzava grugnante in
lunghi strati grigi sopra le macerie e sull’erba; nei nascondigli arrivava il caldo
che aveva odore di morte e di bruciato come da una fornace. I colori erano svaniti da
tutte le cose, gli odori avevano abbandonato i campi e i boschi. Si aveva la sensazione
quasi opprimente di aver perso la protezione del cielo.
20 dicembre 2020, ore 10.00: ci accomodiamo nell’ampio salone. Avvio la registrazione.
Luigi mi mostra i suoi libri con le foto di Robert Capa alla Radicosa, la macchina fotografica di nonno
Domenico, copie di ritagli di giornale; gli stessi che nonna Carolina volle conservare tutta una vita nel cassetto di un comò.
Avanzi di carta impressionati dai ricordi di giorni di terrore.
Sotto quel cappellaccio nero e l’aspetto rude di uomo con le chiòchiere ai piedi si nascondeva, mi racconta Luigi,
un cittadino colto ed intelligente, che aveva viaggiato e parlava diverse lingue. Finito il servizio militare nel Regio
Esercito zi Mnguccj infatti si era spostato in Russia con la moglie, vissero a San Pietroburgo.
A quel tempo non faceva differenza la Russia o l’America, entrambe offrivano opportunità di lavoro.
Dopo diversi lavori, riuscirono a fare fortuna con la lavorazione dei filati confezionando indumenti di lana e pull-over.
Nel 1903 nacque in Russia Gregorio, padre di Luigi, il loro unico figlio. Nel 1917, a seguito della rivoluzione d’Ottobre,
essendo stranieri, ricchi e soprattutto capitalisti, furono costretti a tornare in Italia. Carolina fece
il viaggio di ritorno con addosso tutti i rubli che poté, ma una volta in Italia fu solo carta straccia e una vita da ricominciare.
Si stabilirono alla Radicosa e Domenico rispolverò la sua vecchia passione per la macchina fotografica.
Era l’unica cosa che era riuscito a riportare a casa e cominciò, con successo, a fare il fotografo.
Il figlio Gregorio, pittore, preparava fondali per le foto. E sempre alla Radicosa, tra quelle montagne,
mi spiega Luigi, nel gennaio 1944 si incontrarono i due fotografi: Domenico Matteo e Robert Capa.
Probabilmente riuscirono a parlarsi paradossalmente proprio in tedesco, lingua che conoscevano bene entrambi.
Luigi mi mostra le foto di Capa, mi indica nonna Carolina, in un’altra mi mostra Concetta Martino,
moglie del bidello del paese e nonna del tenore Giuseppe Vendittelli, e poi ancora Luisa Vendittelli,
“uagliungèlla, l’cusstèll nur’, ‘na unnèlla, mmiéz alla nèva, l’scarp r’ gliu frat tutta ndsìta p’fridd e cannunat” .
Donne nel mezzo del fronte tra tedeschi e americani. E gli uni dagli altri distanti solo poche centinaia di metri.
Capa, prototipo del fotografo di guerra, trovò la morte su una mina in Indocina diec’anni dopo, aveva quarant’anni;
Domenico Matteo morì per lo scoppio di una mina antiuomo quattordici giorni dopo quelle foto. Luigi Matteo non ha mai conosciuto suo nonno.
Ci vorranno circa nove mesi, tra i più sanguinari della campagna d’Italia, perché gli alleati riescano infine ad aver ragione sui tedeschi.
20 dicembre 2020, ore 11.30: leggo commozione negli occhi di Luigi. Mi mostra la ballata in dialetto che ha composto.
Sì perché Luigi ha composto una ballata a ricordo di quell’incontro:
[…]
“Nu biégliu gióvn, na machnétta mman
(Un bel giovane, con la macchinetta in mano)
Senza fucil, senza bómb a màn
(senza fucile, senza bombe a mano)
Semp issannanz, càcche vota addrèt,
(sempre lui davanti qualche volta indietro)
cu nu curaggj che n’n z po’ rpét,
(con un coraggio che è difficile da ripetere)
p’rpiglià gli fatt r’lla uèrra
(per fotografare i fatti della guerra)
e la meglia giuvndù accìsa ‘n dèrra”
(e la meglio gioventù uccisa per terra)
[…]
Non posso abbracciarli, prometto di tornare; prometto che dal nostro incontro nascerà un progetto e lui, Luigi, sarà di nuovo memoria di quei giorni.