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OLTRE IL VALICO

racconti, montagna

Chi è davvero l'altro?

Certamente gran parte di voi già sa che i sogni hanno riunioni disordinate, dubbi, dispute, difficoltà di concetto, interpretazioni che, ovvio, puntano a capovolgere nelle sue parti fondamentali leggi fisiche e di ragione che rivelano a tutti gli uomini, in quanto ugualmente dotati di pensiero, alcuni limiti invalicabili. E che in fondo vi è un po’ d’ignoranza in tutte le creature ed anche le ragioni più vaste non abbracciano tutte le cose.
Quanto a vizi e a peccati, qualunque sia la loro regola, è certo che si commettono trasgressioni e atti dilettosi, che sono portati a rappresentarsi nei sogni con figure, forme insolite come fosse tutto un accesso di pazzia o di melanconia ipocondriaca o la possessione di qualche spirito che si intrude trascinando l’anima al di là delle sue condizioni comuni.
E in ogni caso quale è il limite tra visione e sogno? Marco Polo era un sognatore o un viaggiatore visionario? Sogno e visione. Il primo è spesso una voglia intima e profonda, l’altra una realtà figlia della mente che prende vita da un dato tangibile: è fissando un dato luogo che si viene catturati da altri mondi di oggetti reali forgiati dall’immaginazione e scollati dalla realtà, in uno accrescimento infuso da schietta e libera fantasia. Come sapere se quello che abbiamo davanti agli occhi è un sogno o una visione?

Naturalmente parlammo di montagne.

Aveva percorso in lungo e in largo i più alti massicci conosciuti, territori remoti del globo terracqueo e sentivo che insieme, ognuno chiuso nella fermezza di essere se stesso, avremmo potuto lanciarci in folli avventure.
Che incredibile malia ascoltarlo, un serrato round di spasimi. Tutti, in fondo, desideriamo perderci tra gli indigeni, e che qualcuno, un estraneo, ci marchi sulla schiena la verità del nostro destino. Era così inospitale. E io attratta da prospettive desertiche nelle quali trovare la mia situazione naturale. Impenetrabile nascondeva sempre qualcosa di così pauroso da dare i brividi; chissà perché avevo la sensazione che fosse legato a qualcosa di nero, fondo e ruvido. A volte la sua presunzione si scioglieva in naturalità e schiettezza ma era piuttosto faticoso per un estraneo riconoscere tali occasioni. Di tanto in tanto aveva insospettate parole gentili e un po’ di poesia per gli altri, che solo alla fine prendevano conto di come si erano illusi.
Troppa avida e fine furberia in quelle vene.

“L'uomo bianco è come le formiche. Ingoia tutto e poi muore grasso.”
Karamakate - “El Abrazo de la Serpiente”


Il suo sguardo vivo pareva concentrare in sé con singolare intensità tutte le esperienze che aveva vissuto. Icrub era, ad ogni modo, il migliore per quella spedizione o almeno così parve a una prima indagine.

Credo sia stato sul finire di gennaio, dopo interminabile attesa quando la speranza cominciava a morire, che partimmo.
Eravamo soli. Entrambi a capo della stessa spedizione. Che follia era mai? Predisponemmo le cose in vista di una breve assenza. Sapevamo sarebbe stata spedizione di pochi giorni, forse ore, addirittura istanti. Tutto si sarebbe esaurito nel breve.
Era chiaro anche che non avremmo reso noto tra i nostri la partenza. La nostra impresa non aveva alcuno scopo reale da dissimulare perché semplicemente non ne aveva uno. O forse due completamente opposti. Ci eravamo detti sottovoce che andavamo a esplorare certe popolazioni indigene in Centrafrica, tali uomini delle stelle, o forse alla ricerca dell’emozione originaria, quel bisogno vitale in cui il cuore spinge l’intelligenza verso emozioni forti, ancestrali e autentiche perché non conosce altre vie per respirare l’essenza primitiva della vita. Passioni, disperazioni, tristezze, gioia. Un’esperienza di cuore, sentimento e sogno, un percorso interiore di armonia e bellezza. Impresa impossibile per noi e per questo non dichiarata. Poi ci venne in mente che assieme si poteva andare alla ricerca della radice della Bayandai, pianta misconosciuta dei sogni lucidi.

“I sogni vengono da fuori” dicono i quechua delle Ande peruviane. Sono messaggi delle divinità.


Scegliemmo più avanti il solo scopo di cui noi due assieme eravamo capaci: il vuoto assoluto. Pare si trovasse alla fine di una parete strapiombante, un metro e mezzo sotto in diagonale a destra di una fessura obliqua mal proteggibile, poi ancora giù verso una verticalità sulla sinistra (iniziare a traversare subito dopo aver moschettato il vecchio chiodo, fu la raccomandazione di un vecchio saggio Dogon incontrato all’attacco della via) e poi dritti in discesa verso le placche sottostanti il grande strapiombo sempre obliquando a sinistra.
Una via veramente bella vista da su, di stampo classico. Sembrava impossibile scenderla senza forzature una parete così ripida. Stupendo il traverso finale della prima calata per arrivare in sosta. Superlativa la qualità della roccia nell’aereo secondo tiro.
La paura della discesa verso il vuoto assoluto si univa all'emozione di legarmi in cordata con quell'uomo ch'io veneravo e portavo nei miei desideri. Levammo il campo al tramonto fu forse per questo che tutto mi sembrò anticipatamente indebolito, collaborare, agire con lui; ciò che provai fu soprattutto un timore intimo dei gesti da abbozzare in parete e una timidezza intellettuale delle parole da dire.
La via era diventata improvvisamente difficile da trovare, montagne marce piene di frane, il terzo tiro fu parecchio tosto: si affrontava direttamente lo scivolo verticale, poco a destra della sosta, la sosta appesa nel posto peggiore. E così mi ritrovai sopra il culo altezze nauseanti e sotto spit e chiodi vecchi fino a quel vuoto assurdo. I piedi puntati in parete, le mani infilate nel fondo della fessura.
Strano. Adesso che eravamo chiusi dentro alle montagne soli, io e lui, l’idea del vuoto assoluto cominciava a sembrare meno assurda. Mi guardai attorno senza scoprire cose tranquillizzanti: creste giallastre attorno, un grande abbandono. Solo sussurri di ghiaie, non canto di uccelli o di acque. Per lunghi tratti mi sembrò di procedere sola lungo quella linea insicura di fessure incise.
Nessuna parola dal mio compagno di cordata. Non c’era piacere, nessuno dei due voleva essere lì a seguire la via. Pochi commenti, secchi e misurati. Buio anche fuori. La compagnia che ci facevamo su quella roccia era una specie di sonno che ognuno di noi due aveva, e la parete tutta false fessure come stesse per finire a ogni tiro, ma non finiva né il falso della nostra cordata né la parete.
Eravamo due, o due forme di uno: la parete e i due scalatori. E io non so quale dei due fossi, o se ero una o due, o nessuno. Trattenevo fiato, quasi bastasse a tenerci appesi. E sempre quel vento brusco e incerto.

Sono caduta ad un certo punto senza poter far nulla, a testa in giù, alla fine della corsa ero in un posto stretto, incastrata nella roccia. Mi è salita una gran rabbia. No, mi sono detta. Proprio a me non può capitare.
E con tutte le forze che avevo mi sono liberata e mi sono girata. Nessuna traccia del mio compagno di cordata che pure mi aveva ridestato una quantità fortissima di sentimenti così come se quell’abbandonata fossa in cui ero finita per seguirlo, e che si perdeva in chissà quali segreti, fosse propriamente le mie magiche terre dei sogni.

Oramai l’erba di fondovalle era già bruna, e quasi secca ondeggiava all’affilato alito di vento che ne usciva. Tutta la notte bestie e cani avvolti entro i loro ricoveri d’erba tremarono e frusciarono il pelo in quel pallido mare ma, si sa, nei sogni degli uomini onde di sonno e onde di erba si mescolano divenendo presto un’unica cosa.